martedì 3 dicembre 2013

"Non è né fascismo né intrattenimento." / Riflessioni mancate su "La région centrale" di Michael Snow (1971)

[Questa scheda era stata scritta per una rubrica sui classici della storia del cinema. Ma non è stata accettata dalla rivista che l'aveva commissionata, e per questo trova asilo qui, in quella stessa forma, mantenendone la scansione in paragrafi e il voto finale. L.h.D.]

LA REGION CENTRALE (Canada, 1971) di Michael Snow 




TRAMA

Area centrale di un altopiano montuoso, presso Sept Iles, Québec, 1971.

1a bobina. Dal suolo una panoramica a 360° inizia il suo lento e incessante moto rotatorio. La macchina da presa vortica in larghe spirali, ascendendo in senso orario, dalla terra al cielo, si lancia oltre i profili delle montagne, fronteggia il sole, dà l'illusione di fermarsi nel blu soprastante, e va a perdersi dove ogni movimento spiraliforme, se c'è, è impercettibile. Non c'è più movimento nel movimento.

2a bobina. Il paesaggio si capovolge: dal cielo, la macchina, rovesciata sull'asse verticale, plana rotante al suolo, in senso antiorario. Risale dall'altra parte, e raddrizzandosi segue placida l'orizzonte, in una panoramica finalmente stabile. Poi si blocca, fa vorticare l'inquadratura fissa su se stessa, per una quarantina di volte, forse più, a ritmo pian piano più sostenuto. Poi prende a decelerare e fa per fermarsi. Non c'è più sopra né sotto.

3a bobina. Il paesaggio collassa all'indietro. Dal cielo la macchina si rovescia a terra, risale dall'altro lato, torna al suolo ruotando sul suo asse verticale, disegna rotazioni oblique e brevi esplorazioni proteiformi, che della circolarità non hanno più nulla. Si dà poi in traiettorie ellittiche e inquadra spicchi sempre diversi di spazio, in terra come in cielo, deragliando dal proprio asse e stabilizzandosi nell'inversione a 90°. Plana su un gruppo di sassi, sempre di traverso, e gradualmente si ferma. Non c'è più ascissa né ordinata.

4a bobina. La macchina panoramica sul filo dell'orizzonte, verso sinistra. D'improvviso inverte direzione e si muove verso destra. Prosegue ad oscillare in una direzione e nell'altra, prima scendendo al di sotto dell'orizzonte, poi volgendosi sempre più al cielo. Insiste ad altalenare orizzontalmente da destra a sinistra, da sinistra a destra, e ancora da destra a sinistra, da sinistra a destra, e così via. Non c'è più verso nella direzione.

5a bobina. Il paesaggio si capovolge. La macchina da presa esegue movimenti simili a quelli della 4a bobina, ma ruotata di 180°. Lo zoom entra in gioco più percettibilmente di prima: ora ci si schianta sulle montagne, ora le si guarda da lontano. La macchina è sempre più ravvicinata e sempre più veloce, poi decelera, e di botto riaccelera, più di prima. Di nuovo frena, si allontana in carrellata ottica, inclina il profilo dell'orizzonte verso destra, si capovolge, ruota su di sé tre volte, fugge nel cielo, ripiomba lateralmente a terra, e così per due, tre volte, avanti e indietro, finché l'orizzonte non diventa una linea perpendicolare allo schermo, che la macchina riavvolge piano, verso il basso. Anche il concetto di orizzontale viene meno. Non c'è più orizzonte nell'abisso.

6a bobina. Compendio accelerato e lievemente isterizzato dei movimenti presentati nelle precedenti 5 bobine. La macchina decolla, si ribalta, si ridireziona, contorna, girandola, oscilla, si tuffa, funambola, arretra, sviene, rinviene, si ferma, si storta, si riaggiusta. Il paesaggio si scuce di nuovo in nastro verticale, da riavvolgere in picchiata. Il fiume a scorrimento verticale rima però con il flusso metrico della pellicola: negativo per negativo, il doppio movimento verticale restituisce, per contrappasso, un orizzontale pervertito. Non c'è più moralità cartesiana.

7a bobina. L'incedere verticale prosegue sempre più fluido e veloce, poi d'un tratto salta, perde il passo, si scolla dal suo punto d'osservazione e si riporta a filo d'orizzonte, in direzione contraria, a montagne ribaltate. Come un periscopio impazzito, sfoglia nevroticamente l'orizzonte, ma senza cercare nulla e trovando ancora meno. Non c'è più motivo di insistere a leggere questa trama.

8a bobina e seguenti. I movimenti si fanno sempre meno descrivibili. Al moto della 7a bobina si saldano rotazioni sempre più rapide e snodate. La macchina da presa ruota sul proprio meridiano in un senso e nell'altro, spiedo aerospaziale di ciclica foga, prima di placarsi e schizzare in nuove direzioni. Si ripresenta lo yo-yo convulso della 4a bobina, ma, in accordo con l'umore delle ultime bobine, da orizzontale si verticalizza. Prende poi a zigzagare tra terra e cielo, mentre il buio comincia a prevalere. La notte avanza, la macchina riprende il suo corso rettilineo. In un angolo la luna saetta isterica, al ritmo della macchina, come una pallina senza più il senno della gravità. La macchina le si avvicina in zoom, ma quella non rinsavisce. L'inquadratura si congela nel buio e, a tratti, pulsa e si gonfia di blu. Si riaffaccia il giorno: il cielo è una cappa lattea, la terra una chiazza scontornata. Si perde il fuoco e non si ha tempo di riprenderlo. Tutto è troppo vicino, troppo astratto, troppo sbiadito. Orbite senza più nessuna cittadinanza geometrica testano rette spigolose come note di voltastomaco. La macchina si fa ottovolante, correndo lungo il glifo stesso dell'infinito, si noda e si riannoda, si torce e si contorce, tocca il cielo finché non la richiama la terra, in un andirivieni che da spastico si fa elastico, a emulare lo sguardo di un infartuato protratto in loop. Seguono rotazioni minime su angoli sempre più stretti, ricciolini aerei e fini arzigogoli prendono a scavalcarsi a vicenda, sciogliendosi nella panoramica più sana e rispettabile di tutto il film. Uno zoom arriva a sfregiarla e a dirottarla sulle rocce, ma di lì a poco se ne libera. La mdp inchioda un'inquadratura a se stessa e la lascia ruotare su di sé, ripetutamente, per un numero difficilmente quantificabile di volte. Intensificando quanto già registrato nella 1a bobina, la macchina si sofferma sul cielo, dando l'illusione di fermarsi, e si rianima a terra, rilasciandone la motilità ininterrotta. E ancora, si scaglia in cielo, si getta in terra, agonizza in circoli sempre più piccoli, eiacula in gittate visive di dubbio gusto. Appena prima di defluire, l'agguato al buonsenso oculare è al suo culmine, la macchina spettatoriale in conclamato tilt sinestetico. L'ultimo sguardo va alla luna, sepolta dietro le coltri del giorno nascente. La luna sparisce, e con lei l'ultima bobina.




L'ARTISTA

Michael Snow, classe 1929, è un pittore, scultore, fotografo, cineasta, videoartista, inventore, teorico dell'immagine, olografo e musicista canadese. Figura di assoluto spicco nella storia del cinema sperimentale, poi approdato all'arte elettronica, realizza un corpus complessivo di 4685 opere, tra cui sculture, fotografie, film, video, installazioni, diapositive e composizioni musicali. Come pianista jazz, ha realizzato una dozzina di dischi. Come cineasta, almeno 24 film che hanno riscritto da capo le coordinate del cinema, sia esso sperimentale o industriale, avant-garde o aprés-garde. Insieme a cineasti come Hollis Frampton, Ernie Gehr e Paul Sharits, Snow viene identificato sul finire degli anni '60 come uno dei massimi esponenti nordamericani del cinema strutturale, in cui il film si assume a contenuto di se stesso, sperimentando con le proprie unità materiali di base e con la metrica minima generata dall'amplesso di proiettore e pellicola (il chiasmo sinestetico tra suono/silenzio e buio/luce). Logicamente banditi concetti come “identificazione” e “intrattenimento”, ci troviamo vicini all'expanded cinema designato in quegli anni dal teorico Gene Youngblood: un nuovo cinema che, dichiarata la fine della concezione drammatica e narrativa del film, possa farsi espressione di una figura tecnico-creativa capace di riassumere in sé compiti scientifici e artistici, in grado di ripensare l'arte come applicazione estetica della tecnologia. Se Frampton, esemplificando ironicamente il concetto, descriveva l'essenza del cinema come l'escogitare cose da mettere dentro il proiettore (“e poiché solamente una cosa è sempre nel proiettore -la pellicola-, allora è esattamente questo ciò che abbiamo visto e ciò di cui trattano i film”), Snow sviluppa questa stessa ricerca estetica e concettuale ponendo al centro dei propri film un unico elemento della sintassi cinematografica, come a testarne e ad esaurirne tutte le possibilità espressive: così fa con lo zoom in Wavelenght e con la panoramica in <----> (rititolato, per chi ha necessità di verbalizzare, Back and Forth). Nel 1969, presenta un progetto alla Canadian Film Development Corporation: Voglio fare un film di tre ore che sappia assemblare tutti i possibili movimenti di macchina e tutte le relazioni che possono esistere tra un movimento di macchina e un oggetto ripreso. Il movimento di macchina è sempre stato schiavo della storia e dei personaggi di cui si narra. Nel mio film, invece, voglio dare alla macchina da presa lo stesso ruolo di ciò che da essa viene ripresa. Due anni dopo realizza La région centrale.



LA MACCHINA

Non siamo noi a giocare col cinema: è la natura del cinema a giocare con noi.
Il tuo film sa meglio di te quale forma vuole avere. 

James Broughton 

A Pierre Abeloos, un ingegnere creativo di Montrèal, Snow chiede di disegnare, brevettare e fabbricare un complesso braccio mobile su cui installare la sua macchina da presa 16mm. L'apparato meccanico, sorta di elefantiaco satellite robotizzato, permette alla cinepresa di ruotare di 360° su tutti gli assi, facendola oscillare, vorticare e scivolare a diverse velocità. In fatto di movimenti di macchina, è la quintessenza del senzamanismo cinematografico: la macchina può muoversi orizzontalmente, verticalmente, lateralmente, a spirale, in ogni piano e direzione, riuscendo insieme a zoomare e a variare l'apertura del diaframma. La cosa veramente straordinaria, però, è che può farla da sola, senza l'intervento di un operatore umano. Pura performance macchinica (e non più solo meccanica), quanto riesce a fare “la macchina da presa senza uomo” di Snow è lo stadio finale del cine-occhio teorizzato da Dziga Vertov. De-antropizzata in ogni suo movimento, non eseguibile né controllabile dall'uomo, la mdp robotica e onnidirezionale di La région centrale non radicalizza solo l'assunto vertoviano, ma mette in pratica il sogno di qualsiasi avanguardia novecentesca nel potenziare e liberare lo sguardo umano per farsi pura macchina di visione, occhio disincarnato e ipercinetico. Anche il suono obbedisce all'aleatorietà post-umana dell'esperimento: fischi, rumori e vibrazioni elettroniche, tanto accordati quanto contrapposti al movimento, appartengono alla partitura della macchina stessa, fanno da eco asincrono ai suoi pianisequenza incessanti. È, con tutta probabilità, il primo film girato da un robot. Da un punto di vista creativo, gli esseri umani intervengono solo a costruire l'apparecchio, trovare il luogo delle riprese e scegliere 3 ore da un girato complessivo di 60, peraltro giuntando tra loro solo le bobine (mantenute integrali, con tanto di code). Snow e l'eventuale piccola troupe (oltre ad Abeloos, la moglie e assistente Joyce Wieland e il fonico Bernard Goussard) non possono nemmeno dirsi presenti alle riprese: giunti in elicottero nell'altrimenti inaccessibile location, per evitare di venirne inquadrati si nascondono lontano dall'onnipotente obiettivo a 360°, e da lì radiocomandano l'apparecchio per avviarlo. Su quel che ne uscirà, il cosiddetto regista, che ha modo di guardare una sola volta nel mirino, ne sa più o meno quanto i suoi futuri spettatori. Senza più bisogno di supervisione né controllo, la macchina restituisce l'uomo alla sua deliberata impotenza, creativa ed esecutiva. Finalmente, ci si è sbarazzati dell'autore.

IL FILM




















LANDSCAPE SUICIDE/Pittura della vertigine

Tu sei qui, e il film è lì.
Non è né fascismo né intrattenimento.

Michael Snow

A sentire Snow, con La région centrale intendeva creare un esemplare gigante di film-paesaggio, paragonabile per mole e caratura ai grandi dipinti paesaggistici di Cézanne, Poussin, Corot, Monet, Matisse, e, soprattutto, alle opere del Gruppo dei Sette (Carmichael, Harris, Jackson, Johnston, Lismer, MacDonald e Varley), un manipolo di pittori canadesi che negli anni '20 del '900 colsero la lezione degli Impressionisti francesi per celebrare le grazie di una paesaggistica locale generalmente sottoutilizzata. È evidente, poco meno di un dato di fatto, che in La région centrale la superficie pittorica salti prepotentemente all'occhio in ogni ribaltamento d'orizzonte, in ogni girandola anti-gravitazionale: dismesse le coordinate cartesiane del cinema (come del mondo), l'immagine si scioglie, nel suo mulinare incessante, in quadro astratto. L'onnipotenza del piano vince così sulla prospettiva e sui punti cardinali, captando un ventaglio cromatico-luministico stilizzato che sì, verrebbe da definire impressionista, se solo non fosse ritratto da una macchina. Il che diventa tanto più significativo, e paradossale, per un'opera in cui la superficie viene insistentemente sfranta e stirata, dove la profondità è un miraggio continuamente sollecitato, dove i limiti del quadro, e dunque la cornice, vengono sfidati con slancio sempre più esasperato (un modo, certo, per riaffermarne perversamente il dominio). Ma anche da un punto di vista strettamente pittorico, La région centrale sa lanciarsi oltre la storia dell'arte (e dell'uomo). Più vicina alle panoramiche extraterrestri di Chesley Bonestell e alla carnagione surreale di certi sfondi dipinti da Yves Tanguy, che non ai sopracitati modelli post-impressionisti, la flagranza pittorica di La région centrale cova in sé qualcosa di minacciosamente ancestrale oltre che di futuristico, guardando al paesaggio canadese come una terra da (ri)conquistare con angoscioso e primitivo senso del sublime, temi questi (la fantascienza e la wilderness) che aprono un ulteriore binario, libero di scorrere nel prossimo paragafo. Nei riguardi della tradizione pittorica, è quasi superfluo osservare come La région centrale si diverta a scandagliare, destrutturare e riscrivere ogni imperativo vigente in fatto di composizione paesaggistica, slabbrando prospettive, moltiplicando i punti di fuga, rovesciando la tradizionale suddivisione gerarchica dello spazio raffigurato, e scagliandosi contro l'idea stessa di rappresentazione, libera, così, di liquefarsi in pura visione. Già nella 1a bobina, questo colossale fenomeno ottico-sonoro ci tiene a presentare a grandi linee la propria area di ripresa, segnando la mappatura complessiva del terreno da gioco; a partire dalla 2a bobina, le esplorazioni visive che per tutto il film si sfogheranno, non privilegeranno mai un solo punto di vista o un'unica sezione di paesaggio, ma riprenderanno ininterrottamente tutto ciò che circonda la macchina, nel nome di un vertiginoso eppure rigorosissimo egualitarismo spaziale, asintoticamente teso all'onnicomprensivo (nella sua monografia su Snow, Antonio Bisaccia lo definisce, come meglio non si potrebbe, come “l'incantesimo enciclopedico, e forse infantile, che cerca nel paesaggio il riassunto del mondo, tra l'infinitamente grande e l'infinitamente piccolo.”). Sono almeno due i paesaggi attigui che entrano in gioco da altre dimensioni, accorpandosi al più manifesto ed esaltandolo nel tentativo stesso di dissolverlo. Il primo ha qualcosa a che fare con la “Cameraland” immaginata dal land artist Robert Smithson, una Natura definitivamente cinematografica, creata e abitata dai movimenti di mdp, dagli smottamenti di pellicola, dai deliqui del suono ottico (il famigerato flicker), dagli orgasmi a base di emulsioni, perforazioni, formati, giunte, viraggi. In sostanza, un'Eldorado del feticismo celluloidale, a riprova di quel lucido autismo metodologico che è croce e delizia per chiunque si avvicini alle bordate filmiche degli Strutturali. Un sogno per i cinesuprematisti più radicali, un incubo per tutti gli altri. In La région centrale, l'ego creativo della macchina è a tal punto palpabile e strabordante che arriva a forgiare un paesaggio a sé, un labirinto strutturato in panoramiche e zoom, del tutto virtuale e percorribile solo con lo sguardo, eppure dotato di una riconoscibile morfologia interna, sulla cui effettiva abitabilità torna pertinente richiamare la funhouse meta-letteraria di John Barth. Questa sorta di Flatlandia per cineamatori terminali, dove al posto delle figure piane previste da Edwin Abbott troviamo l'alfabeto base della macchina di presa, equivale al primo stadio d'introiezione, ancorché disumana, del paesaggio esterno, e prelude a una sua incarnazione ancora più profonda, mentalizzata e destabilizzante. Adesso, il paesaggio di Sept Iles non è più solo una superficie da consumare con gli occhi, scioltasi in pittura in movimento, e nemmeno un caleidoscopico corpo spiraliforme riplasmato dalla mdp, ma evolve in paesaggio interiore, s'introverte in stato psichico, coscienza allargata sino al cosmico. Da esperimento audiovisivo La région centrale si fa esperienza pulsante, fenomeno percettivo che intacca nel profondo psiche e soma di chi guarda. Un paesaggio ora leggibile nei sommovimenti di estasi e noia, incarnato nelle peristalsi di conati e mancamenti, certificabile nella perdita d'equilibrio, nello smarrimento psicogeografico e in possibili labirintiti spettatoriali, la cui prognosi sarà da valutare caso per caso. Noia? Sì, possibile, ma di un tipo estremamente coinvolgente. Concetto generalmente vilipeso e per la sottoscritta da riabilitare con urgenza nuova, torna qui utile la definizione di noia di Emil Cioran come “vertigine tranquilla”, definita altrove come l'impasse capitale che annulla tutte le domande e tutte le risposte, capace, tra le altre cose, di liberarci dalle maglie del tempo per mezzo del suo congelamento. Scrive Cioran: «Nella noia il tempo non può scorrere. Ogni istante si dilata, e non si compie, per così dire, il passaggio da un istante all’altro. Ne consegue che si vive in una profonda non adesione alle cose. Nella noia il tempo si stacca dall’esistenza e ci diventa estraneo.» Se le proprietà estatiche del film meritano un discorso a sé, per quanto così ben avviluppate a quelle tedianti, le possibilità di un suo rifiuto nel nome della cosiddetta noia erano troppo appetibili per non citarle e ricondurle alle stesse panoramiche stordenti di La région centrale che, noiose e/o travolgenti che siano, portano in definitiva a perdere il senso del tempo, grazie un'esperienza audiovisiva dall'impatto ben oltre qualsiasi “ipnotico” di rito. Così come occorreva puntualizzare del film, insieme al carattere dinamico sin qui prediletto, anche la monumentale portata statica e contemplativa - parola che, guarda caso, contiene nella propria etimologia il concetto di temp(u)lum, cioé di miniatura/riproduzione del tempo, e dunque, in qualche modo, di cinema. Aspetti che, tra le tante filiazioni e affinità, legano indissolubilmente questo film anche al cinema di un contemplativo per antonomasia come James Benning, il maggior cantore post-hopperiano (e post-warholiano) del paesaggio nordamericano. O a una cineasta come Chantal Akerman, che ha dichiarato come sia stato proprio La région centrale a dimostrarle come il tempo (o, ad esser precisi, la sua nebulizzazione in pianisequenza) sia la cosa più importante in un film. Ulteriore nota curiosa, la stessa Akerman ha aggiunto come sia proprio a partire dal film di Snow che ha cominciato a interessarsi del rapporto tra film e corpo dello spettatore. Del resto, sono stati diversi i casi di spettatori che durante le proiezioni di La région centrale hanno accusato malori fisici, dando di stomaco o persino svenendo. Il tutto per la felicità di Snow, che intendeva proprio superare l'algida soglia della provocazione concettuale per arrivare a opere e reazioni incontestabilmente fisiche (Ho pensato: bene, significa che ho fatto qualcosa di giusto). Ricapitolando: La région centrale è un capolavoro. Che può annoiare fino allo spasimo. E fa vomitare. Non è esilarante?



A PIECE OF WILDERNESS/Segnale da un pianeta in via d'estinzione

Sarà come una registrazione dell'ultima zona incontaminata sulla Terra, un film da spedire nello spazio come un souvenir di ciò che un tempo era la Natura.
Michael Snow

Un secondo intento di Snow era quello di produrre “un tipo di immagini che un alieno atterrato per caso sulla Terra avrebbe riportato a casa”. Due anni prima di girare La région centrale, nel 1969, il cineasta canadese promette che si tratterà di “a kind of absolute record of a piece of wilderness”, la registrazione filmata di una zona selvatica, dove i movimenti meccanici della mdp sarebbero stati paragonabili allo stile dei documentari girati, a partire da quello stesso anno, sulla Luna. La prima dichiarazione d'intenti può dirsi realizzata in più di un senso: come si è già detto, il film viene completamente realizzato da un robot, e dunque un essere alieno dall'uomo, sebbene fabbricato da mani terrestri. Rispetto alle riprese effettuate sulla superficie lunare, si mantiene solo in prima battuta la scientificità e la freddezza di ripresa, profilandosi poi con evidenza la natura autenticamente aliena di chi, o cosa, muove la macchina da presa progettata da Snow e Abeloos. Se i primi umani sulla Luna affrontano l'assenza di gravità con movimenti impacciati e rallentati, l'operatore alieno sulla Terra sospende al contrario ogni ordine gravitazionale, filmando in ogni direzione e a qualsiasi velocità, senza le pruderie euclidee dei terrestri, sfogliando con molta più libertà e disinvoltura di questi ultimi l'ampio spettro di movimenti e variabili balistiche possibili nel cosmo. L'interscambio tra umano e alieno ritorna, ancora più evidente, nella dialettica tra antropizzazione e natura selvaggia, inscritta nel progetto già dalla scelta della location. Snow, infatti, installa la macchina da presa su una remota piana brulla del Québec, circondata da montagne e accessibile solo in elicottero, un'area sideralmente lontana dalla civilizzazione, dove non c'è traccia di esseri umani né di animali. È sempre il cineasta a parlare: Volevo esprimere un sentimento di assoluta solitudine, una specie di “Addio alla Terra”. In completa opposizione della maggior parte dei film, La région centrale non vuole presentare solo il dramma umano, ma anche quello meccanico e ambientale. Vuole preservare ciò che un giorno diverrà una rarità assoluta: la wilderness. Ponendosi così a distanza dalla civiltà e cancellando ogni ombra d'umanità visibile, La région centrale diventa un Io informe e totalizzante, la coscienza residua di un pianeta spento, di un habitat selvaggio, colto appena prima della sua dissoluzione. È, per questo, non solo un documentario d'impossibile obiettività, che va a situarsi ben oltre qualsiasi soggettività filmante, ma anche uno dei più grandi esempi del cinema di fantascienza d'ogni tempo, uno dei pochi ad assumere una prospettiva integralmente aliena, da un punto di vista estetico e politico. Tutto nel nome di quell'introflessione tutta mentale e stilistica della fantascienza, sciorinata in manifesto appena un decennio prima da J. G. Ballard, e riscontrabile, per chi scrive, in tutto un cinema - storicizzato o oscurato che sia - che qui si evita spasmodicamente di definire sperimentale, per considerare al più come fantascienza in forma di film, quel che pertiene tanto a Burroughs come a Brakhage, a Ed Emshwiller come a Franco Brocani. Ha peraltro una sua ironia il fatto che l'autentica rarità da preservare sotto teca sarebbe presto divenuto il film stesso, assurto a intoccabile ed enigmatico Sacro Graal del cinema d'avanguardia, citato come termine di paragone da molta critica generalista oltre che specialista, ma di fatto poco visto e diffuso (mentre il braccio meccanico, anch'esso precocemente musealizzato, verrà riutilizzato dall'artista canadese in un'installazione di poco successiva). Snow si è detto preso dall'orrore, come altri umani, al pensiero di antropizzare l'intero pianeta, nell'esorcizzazione, più o meno conscia, con cui si lega alla conquista violenta della wilderness nordamericana; per questo ipotizza anche un uso bonariamente alieno della macchina da presa, rifiutando l'idea stessa di colonizzare la superficie terrestre su cui approda, e di penetrarla con movimenti di profondità propriamente detti, visitando la natura selvaggia senza contaminarla e limitandosi ad esplorarla con lo sguardo, effimera e mobilissima scia di visione scaturita da un unico, immobile punto. A sua volta, questo va a mettere in discussione tutta una serie di stereotipi, tipicamente geocentrici, con la quale si tende a pensare l'alieno come una superiore entità conquistatrice, o, più in generale, come la quintessenza della disumanità anti-emotiva, freddamente pacifica o bellicosa che sia. Generalmente, chissà perché, sembra che siano perlopiù gli esseri umani i detentori di un'impulsività di difficile gestione ma in fin dei conti sana e verace, quella che appunto passa, con sommo sprezzo per le possibili categorie psicologiche extraterrestri, per “umanità” (valga per ogni altro derivato possibile, come “umanista” o “umanesimo”). Perché poi la dicotomia umano/alieno si riaffaccia anche sul piano emotivo: sarebbe improprio dire che la macchina di Michael Snow, il cineasta dall'opera rigorosamente “anti-emozionale” (ipse dixit), esponente di spicco di un gruppo di cineasti che si batte da sempre contro i concetti di immedesimazione e intrattenimento, lieviti, in La région centrale, con alterigia cerebrale al di sopra della piccineria umana. Piuttosto, sembra che il dramma della macchina e della natura assumano una propria emotività, proprio nell'esasperazione della mobilità meccanica e nella pallida desolazione del paesaggio, tratti che a loro volta riverberano su quel paesaggio gastrointestinale sopra descritto (e dai tormenti di certo cyberpunk sappiamo come i contorcimenti psicofisici dell'uomo non siano niente rispetto alla disperazione di una macchina che desidera, non potendo raggiungere, la condizione umana). In breve: solitudine cosmica, sdegno umanista, dramma meccanico e ambientale. Sfiora tutto questo la tensione umana, in chiave aliena, della macchina da presa di La région centrale, bruciando qualsiasi distinzione possibile grazie a un'emotività dal respiro universale, capace di alienare l'umano e umanizzare l'alieno. Ovvero: un film realizzato da un non umano, eppure segretamente umanista. C'è di che piangere.



ENTER THE VOID/Nel cuore del cuore del cinema

L'occhio è il primo cerchio, l'orizzonte che forma è il secondo, e in tutta la natura questa figura viene ripetuta all'infinito. 
Ralph W. Emerson

Tornando alle istruzioni di Snow: Se ti lasci prendere completamente dalla realtà di questi movimenti circolari, hai l'impressione di essere tu a ruotare circondato da tutto il resto o, viceversa, di essere tu il centro statico intorno al quale gira ogni altra cosa. Provando poi a farle cortocircuitare, insieme a quanto si è scritto finora, con tutto ciò che del film si è detto, specie all'epoca, troveremo alcune altre note utili: se Serge Daney scrive di come il film faccia mulinare l'immagine sull'immagine, muovendo la mdp come una palla nel terreno da gioco di un pianeta abbandonato, Raymond Bellour ne sottolinea la portata incorporea, al di là di qualsiasi finalità soggettiva, mentre Louis Marcorelles incalza scrivendo come La région centrale “non ci porta a ripensare solo il cinema, ma l'intero universo” e Gilles Deleuze riflette, nell'Immagine-Movimento, su come l'ipermobilità della macchina faccia perdere ogni centro alla cinepresa, imponendo di fatto “uno stato di percezione gassosa”. Tutto vero. Ma questo stesso centro, definitivamente perduto nel tracciato rizomatico della mdp, può venir assimilato e interpretato da chi guarda. Ed è qui che si instaura l'incandescente dinamica di fondo, la più rivoluzionaria, alla base di La région centrale. Il paesaggio introiettato, intreccio indissolubile tra gli algoritmi della macchina e le variazioni luminose del giorno condensato, interroga più da vicino la natura del cinema e dello spettatore, nelle sfumature di un fenomeno audiovisivo che sembra percorrere in senso panteista un sostanziale footage aerospaziale, di fatto immortalando un paesaggio vuoto, dove l'attenzione rimane tutta sull'orchestrazione delle possibili relazioni tra mdp e quanto è filmato, dissolvendosi prima l'oggetto della visione, e poi la sua variabilità. Come da credo Strutturalista, è questa la strategia più efficace per mettere in scena l'atto stesso di vedere, quel che di fatto riempie (e anima!) lo schermo su cui trottola La région centrale. Quel che conta è il movimento di per sé, la gittata dello sguardo: proprio qui viene chiamato in causa lo spettatore, libero di immedesimarsi nei voli della mdp o di rimanere un punto immobile, esterno e vigile. Il centro perduto di cui scrive Deleuze può così venir interiorizzato da chi guarda, o nuovamente posto in tutta sicurezza al di fuori di sé. Se parliamo di estasi, e non più di noia, diremo che il disorientamento è tanto più profondo in quanto si abdicherà al piano riflessivo per godere di un'esperienza ottica a sé, che avrà la forma di una danza informe, dalla vitalità bulimica e dall'ebbrezza totemica, incurante dei limiti del quadro di cui pure è prigioniera. Si approda così a uno stato mentale puro, contro cui non può nulla nemmeno l'accidentale inclusione in campo dell'ombra del braccio meccanico, il cui lento moto re-inquadrato da se stesso non svela alcun dispositivo illusionistico, ma aggiunge solo un'ulteriore impressione ottica da far scorrere, con le altre, nella totalità del fiume audiovisivo, culminante in quell'albeggiare finale che assurge così a fonte battesimale di una nuova coscienza. Entra qui in gioco la vera région centrale racchiusa nell'anima spiraliforme del film, non l'altopiano circondato dai monti di Sept Iles, ma l'unica porzione di visione mancante e dunque mostrata in absentia. C'è infatti un punto cieco, nell'area circostante alla mdp, che, nonostante la flessibilità del braccio meccanico su cui vortica, rimane sempre al di fuori del campo visivo. È questa l'invisibile regione centrale attorno a cui si muove continuamente la macchina, l'autentica wilderness dello sguardo, il nucleo incontaminato dell'immagine che si può solo costeggiare e mai penetrare (ogni sottinteso sessuale è lecito). Ed è probabilmente questo il cuore invisibile dell'esperienza cinematografica, il centro pulsante e negletto della visione pura, che con un riporto, di nuovo struggente, d'umanesimo alieno, richiama la macchina a ciò che la ricorda consanguinea all'uomo – ovvero, l'impossibilità, pur nell'esasperazione degli sforzi, di conquistare il visibile nella sua totalità. L'essenziale rimane invisibile agli occhi, sì, ma secondo una formulazione più clinica e precisa di qualsiasi vagheggiamento saint-exuperyano, considerato infatti che questa stessa “regione centrale” non coperta dal raggio della macchina rimanda da un punto di vista ottico alla stessa macchia cieca dell'occhio umano, la piccola area della retina sprovvista di recettori della luce, e dunque oscurata per permettere il passaggio dei fasci nervosi - un punto nero, posizionato lateralmente a ciascun occhio, può essere colmato nell'immagine solo grazie all'altro occhio (privilegi della visione binoculare). L'ennesima dimostrazione di vicinanza tra uomo e macchina, dunque tra stati diversi di coscienza, richiama in scena il vuoto dell'intangibile, l'orbita cieca alla base di ogni rappresentazione e riproduzione, così come Wavelenght, quattro anni prima, si dava in un graduale ed estenuante zoom solo per rapprendersi infine in fotografia, confutando ogni sforzo di scavalcare il reale per approdare a un'immagine ancor più illusoria e piatta, frustrante – come La région centrale - per la sua chiosa duplice, insieme castrante (per il passaggio dalla profondità alla bidimensionalità) e liberatrice (il mare raffigurato nella foto come via di fuga, per quanto tipizzata, dall'appartamento sin lì tortuosamente scandagliato in carrellata ottica). Diventa chiaro che giocando col fuoco, o meglio col vuoto, si finisca inevitabilmente per misurarsi con l'eterno e l'inimmaginabile, e l'esperienza visiva, come la riflessione teorica su cui si radica, possa in qualche modo colorarsi di mistico. Snow, da vero Strutturalista, e a differenza ad esempio di uno spiritualista in pectore come Stan Brakhage, ci tiene a riportare ogni Dio possibile al concreto connubio materialista di fisica e ottica, riducendo lo stesso concetto di vuoto alla nozione einsteiniana di “pieno di energia radiante”. Ma non nasconde nemmeno il fatto di essersi ispirato, nel montaggio dei volteggi meccanici, a fondamentali composizioni sacre di Bach, come La passione secondo Matteo e La passione secondo Giovanni, e, in modo ancora più decisivo, a una cantata come Lobet Gott in seinen Reichen (“Lodate Dio nei suoi regni”), più nota come Oratorio dell'ascensione (dove ritorna, in fatto di solitudine cosmica, l'agonizzante lamento di chi si sente abbandonato dalla vita e da Dio - Ach, bleibe doch, mein liebstes Leben / Ach, fliehe nicht so bald von mir!). Ecco, allora, che il paesaggio ottico-sonoro di La région centrale si apre senza più potersi richiudere. Come una cicatrice nascosta nelle pieghe della storia dell'immagine, rimane a monito dell'eroi(comi)ca e imperitura impotenza in fatto di visione. Insieme elevazione prometeica e saggio di metafisica terminale, la Regione Centrale si slaccia in labirinto del cosciente, implode in cerebralismo viscerale, arena inumana (troppo umana) in cui sondare i propri limiti cognitivi e percettivi. Un abisso aperto all'infinito, all'informe, all'impronunciabile. La quintessenza dell'esorbitante.




NOTA/Per chi necessita di altri film (e altri film)
Questa possente “metafora della visione” (per usare un'espressione cara a Stan Brakhage), tracciata da un mobilissimo occhio senza corpo, fluttuante nello spazio e capace di sfibrare, nella percezione, ogni discrimine tra naturale e artificiale, trova un contraltare mistico-soggettivista nell'altra montagna sacra, di un decennio prima, del cinema underground americano, ovvero Dog Star Man di Brakhage, e riconosce un suo avo figurativo già in The Cage di Sidney Peterson, del 1947, parabola ancora narrativa di un occhio disincarnatosi, alla lettera, dal suo legittimo proprietario (un pittore) e da lì libero di scorrazzare in solitudine per la città. Quest'ultima allegoria, che esprime quella stessa dinamica tra reclusione e liberazione dello sguardo inscritta in La région centrale, sarà oggetto di un interessante remake parodico ad opera di James Incandenza, che ha il difetto di non essere mai esistito ma che tuttavia sembra incarnare, insieme alla filmografia purtroppo irreperibile che il romanzo Infinite Jest di D. F. Wallace riporta nel dettaglio, un emblematico sviluppo fittizio delle istanze estetiche di Snow stesso, portate al massimo esaurimento concettuale insieme ai presupposti anti-intrattenimento degli Strutturali con pellicole a loro modo epocali come Too Much Fun e Infinite Jest - opere dolorosamente ripiegate nella propria claustrofilia formale, autoironicamente involute oppure comicamente tragiche, degenerazioni teoriche dalla portata pericolosamente fisica, seppur in buona parte scaturite da quel punto di non ritorno assoluto, del cinema strutturale e non, che è So is this dello stesso Snow. Altri due film in qualche modo avvicinabili a La région centrale, seppur per così dire narrativi, si possono riconoscere in Céline et Julie vont en bateau di Jacques Rivette, meta-divagazione sulle gabbie del cinema non meno avventurosa e liberatoria di questo suo fratello concettuale (e che difatti contendeva a La région centrale l'elezione a Classico, almeno per chi avrebbe dovuto scriverne) e The Falls di Peter Greenaway, altro esemplare compendio di schianti (è nota, per quanto poco o per nulla considerata dai rispettivi versanti esegetici, l'influenza decisiva del cinema strutturale sul primo Greenaway, a partire da Vertical Features Remake). Non si può poi tacere l'importanza, più o meno manifesta, di La région centrale per alcuni dei cineasti più significativi del nostro tempo, dal thailandese Apichatpong Weerasethakul al finlandese Mika Taanila, dall'americano Ben Russell al cileno José Luis Torres Leiva.


 

NOTA/Per chi ama i numeri (e i voti)

Uno dei titoli che pensavo di usare era !?432101234?!, con questo volevo sottolineare come più si esplorano le dimensioni, più ci si avvicina allo zero. E in questo film, La region centrale, quel punto zero è il centro assoluto, uno zero Nirvanico, il centro estatico di una sfera completa.

Michael Snow


Mettiamo le cose in chiaro: La région centrale è un capolavoro, e non solo della storia del cinema, ma della storia della visione tout court. Eppure, ci sono diverse ragioni per cui mi sembrava improprio dargli un voto diverso dallo zero. Provando a fare qualche passo indietro, sarebbe bene ricostruire un paio di concetti. Lo zero proviene dall'arabo sifr, cioè “vuoto”, e viene poi latinizzato in zephirum, ovvero colui che nella mitologia presiedeva al vento di ponente, debole soffio primaverile, e dunque una rinascita a tempo determinato, un fragile a(ne)lito nascente, leggibile, appunto, come “vento da nulla”. Da lì, passò al veneziano zevero e dunque al nostro zero. Simbolo del vuoto per antonomasia anche nel taoismo, nel buddismo e nella filosofia zen, dove corrisponde proprio alla fase finale dell'illuminazione, lo zero viene associato da diverse culture al caos primigenio da cui tutto viene e a cui tutto è costretto a tornare, il limbo che nel buddismo racchiude tutte le reincarnazioni possibili e che, guarda caso, nella mitologia maya viene interpretato come spirale cosmica. Ad essi si può associare anche il concetto indiano di zero, shunya, inteso come un vuoto d'incommensurabile pienezza, dove tutto è cioè contenuto in potenza. Uno spettro virtuale di possibilità variamente (in)espresse che mi pare indicativo nei riguardi di La région centrale, sia per la sua inclinazione a testare l'illimitato ventaglio di varianti sia per la concezione materialista di “vuoto” di Snow, di una cavità cioè riempita di energia radiante, non così lontano, da questo punto di vista, al concetto di nullità colma di cosciente che appartiene allo stadio di beatitudine estatica corrispondente al Nirvana, da lui stesso citato. Lo zero, limite inferiore massimo, rappresenta in più mitologie anche una sutura tra diverse dimensioni, e per l'abisso cognitivo che rappresentava in Occidente era visto con terrore sin dai Pitagorici, non avendo questa cifra nessuna qualità numerica intrinseca. In breve, la storia dello zero, come analizzato da Charles Seife, divenne la storia di un'idea pericolosa e a lungo ostracizzata, rifiutata dai Greci e considerata una chimera da tutto il mondo occidentale, anche per via della sua presunta irrappresentabilità nel mondo fisico. Passando al 10, il voto tanto atteso, quello che nella scala di giudizio comune corrisponde all'eccellenza, è quasi superfluo ricordare come rappresenti pressoché ovunque la valuta base, il canone assoluto del nostro sistema di numerazione, basato a sua volta sul numero delle dita umane (sottolineo “umane”). Se i Pitagorici erano inquietati dallo 0, si può dire che invece provavano una venerazione assoluta per il 10, che nel compendiare in sé i 4 elementi di base rispondeva all'idea stessa di perfezione, di compiutezza, di armonia tra tutti gli elementi, e dunque di chiusura, di compimento di un ciclo (così lontana da quella feritoia oscena che è La région centrale). Il 10 è, inoltre, la Legge per antonomasia. 10 sono anche i comandamenti e sul 10 si basano pressoché tutte le forme di misura correnti. Per i Pitagorici il dieci era “la grande madre che abbraccia tutto e tutto delimita”. Ma La région centrale non delimita nulla. È, anche in questo, il contrario del 10: l'uno recinta, l'altro irradia. Inoltre, se nella simbologia biblica, l'1 è Dio e lo 0 è l'uomo, e la perfezione si dà come un affiancamento di entrambe le cifre, in quell'ordine, lo 0 da solo suona come una fondamentale blasfemia, pura hybris in eccesso con cui l'uomo tenta di elevarsi a demiurgo per rivelarsi imperfetta nullità. Questa sacrosanta bestemmia è La région centrale. Non c'è chiusura, non c'è armonia, non c'è completezza. Si giuntano le bobine come brandelli di spaziotempo, cioè più o meno casualmente, s'inspira il vuoto in ogni momento, si affronta il sole, l'occhio di Dio, senza più complessi d'inferiorità. Questo film non conosce limiti, e potrebbe continuare per sempre. Tutto il resto, suppongo, è matematica del tempo e degli affetti: buttare ciò che non serve nella discarica dei 3, riporre le pulsioni diligentemente stirate nel 7, non farsi sfiorare dall'idea del 2, insistere a sognare il 10 e lottare con tutto se stessi per arrivare alla lode, esigere per sé e i propri cari un 8 apolitico, non trascurare la facile catarsi di un 4, pregare che l'1 stia alla larga dalla propria vita, snobbare i 5 e riverire i 9, ma infine amarsi per il 6 che si è. La noia è l'incontro con se stessi, ribadiva ancora Cioran, attraverso la percezione della propria nullità. Spero abbia funzionato.



Ringrazio Dario Stefanoni, che avrebbe dovuto e voluto scrivere in origine di questo film. A lui, alla cui memoria dedico idealmente questo scritto, devo alcune intuizioni su cui sono poi andate a sovrimprimersi le mie, specie sul rapporto tra Snow e Incandenza (affrontato nella tesi di laurea Fellows of Infinite Jest), insieme ad ulteriori osservazioni utili in sede di analisi, ma che ho infine escluso dalla bozza finale, avendo già sfinito ogni spazio possibile. Ringrazio anche Rinaldo Censi, che si è interessato al destino di questo pezzo, e Gino Delia, che per primo mi fece scoprire lo Snow musicista e olografo. Molte delle dichiarazioni di Snow e delle indicazioni tecniche sul film, altrimenti lacunose, provengono da Effetto Snow – Teoria e prassi della comunicazione in Michael Snow di Antonio Bisaccia (1995). La locandina proposta è posteriore di oltre trent'anni all'uscita del film, risale al 2007 ed è stata ideata e disegnata da Lee Ranaldo dei Sonic Youth.

Loretta H. Delia | Voto: 0