domenica 23 giugno 2013

mothlight | stan brakhage

Luce di falena: pulsante, volatile, morente. Eccezionalmente, in Mothlight, Brakhage non dipinge la pellicola e non graffia l'emulsione (anche qui, come in Len Lye, la cinepresa è bandita e la tela sovrana). Tenta invece un collage bruto, sacrilego: su due code di pellicola trasparente incolla ali e arti d'insetti, petali di fiori, rametti, fili d'erba e foglie secche, ridonando nuova vita a quei corpicini morti con una stampante ottica. Il baziniano complesso della mummia può farsi letterale – eternati nel loro sarcofago di celluloide, trafitti dalla luce del proiettore, possono danzare a vene scoperte, schiantati l'uno sull'altro, di frame in frame, come reliquie inquiete di una primavera lontana (Dead Spring era il suo titolo di lavorazione). Se il cinema può imbalsamare alla lettera il mondo reale con rivoluzionario candore, per contrappasso la collisione materica sublima in massima astrazione, la lirica tassidermica esplode in frammenti mentali, diviene animazione sincopata, haiku seppiato.



                                          1963

You could say Brakhage puts the “anima” back into animation, reanimating the dead, painstakingly affixing the remains of dead insects, leaves and the like onto the film strip, and feeding it through the projector back to life. Of course, the principle of film projection is the illusion of life through light, with the audience gathering to watch like moths attracted to a lamp: the beauty of Mothlight is the way Brakhage evokes the moth not through cartoon mimicry, but by the fragile sensation of its movement, batting against the screen, hurtling in descent. The effect is exhilarating and terrifying. Mothlight is a one-take aria, a breath of life that ends with its subject’s death.

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