Luce di falena: pulsante, volatile, morente.
Eccezionalmente, in Mothlight, Brakhage non dipinge la pellicola e non
graffia l'emulsione (anche qui, come in Len Lye, la cinepresa è bandita e
la tela sovrana). Tenta invece un
collage bruto, sacrilego: su due code di pellicola trasparente incolla
ali e arti d'insetti, petali di fiori, rametti, fili d'erba e foglie
secche, ridonando nuova vita a quei corpicini morti con una stampante
ottica. Il baziniano complesso della mummia può farsi letterale –
eternati nel loro sarcofago di celluloide, trafitti dalla luce del
proiettore, possono danzare a vene scoperte, schiantati l'uno
sull'altro, di frame in frame, come reliquie inquiete di una primavera
lontana (Dead Spring era il suo titolo di lavorazione). Se il cinema può
imbalsamare alla lettera il mondo reale con rivoluzionario candore, per
contrappasso la collisione materica sublima in massima astrazione, la
lirica tassidermica esplode in frammenti mentali, diviene animazione
sincopata, haiku seppiato.
1963
You could say Brakhage puts the “anima” back into animation, reanimating the dead, painstakingly affixing the remains of dead insects, leaves and the like onto the film strip, and feeding it through the projector back to life. Of course, the principle of film projection is the illusion of life through light, with the audience gathering to watch like moths attracted to a lamp: the beauty of Mothlight is the way Brakhage evokes the moth not through cartoon mimicry, but by the fragile sensation of its movement, batting against the screen, hurtling in descent. The effect is exhilarating and terrifying. Mothlight is a one-take aria, a breath of life that ends with its subject’s death.
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